STORIA DELLA PALESTINA (3)
La Palestina britannica
Mentre la situazione mediorientale, dal punto di vista giuridico, era ancora in via di definizione, i britannici ormai amministravano i territori arabi dell’Impero Ottomano. In Palestina rimaneva in sospeso la promessa fatta agli ebrei con la Dichiarazione Balfour. Il governo britannico decise di inserire nel Mandato della Società delle Nazioni l’impegno a costituire una patria ebraica in Palestina. Prima dell’approvazione definitiva del Mandato, però, avendo insediato ‘Abdullah ad Amman, Churchill fece modificare il testo in modo che la patria ebraica fosse intesa soltanto nel territorio a ovest del fiume Giordano, lasciando così la Transgiordania agli hashimiti. L’impegno preso verso i sionisti pertanto non nasceva sotto buoni auspici, poiché tre quarti del territorio del Mandato venivano assegnati a un emirato arabo, per di più sotto la guida di una famiglia che era araba ma non palestinese.
Episodi — Che l’amministrazione britannica della Palestina nascesse male si sarebbe potuto constatare da due episodi avvenuti nel 1921. Per i loro scopi amministrativi, all’inizio del Mandato i britannici classificarono la popolazione (di circa 800 mila persone) in base all’appartenenza religiosa: 650 mila musulmani, 80 mila cristiani, 60 mila ebrei. Tale classificazione era una prassi diffusa nell’Impero britannico. Solitamente si cercava poi di avere come interlocutore un’autorità religiosa che facesse da tramite fra gli amministratori britannici e la popolazione locale. Per gli arabi musulmani di Palestina si decise di istituire la figura del gran mufti. Il mufti è un giureconsulto, un esperto di diritto islamico che emette responsi chiamati fatwa in cui si dichiara se un certo comportamento sia conforme o no all’Islam. Il mufti può essere interpellato da privati o famiglie per questioni riguardanti per esempio un’eredità o un divorzio, ma anche da magistrati e autorità nazionali per pronunciare giudizi su questioni di rilevanza collettiva. Per fare un esempio recente, alcuni anni fa il mufti dell’Egitto ha pubblicato un documento in cui si afferma che l’infibulazione (o mutilazione genitale femminile), pratica ancora diffusa in molti paesi africani fra cui l’Egitto, è contraria all’Islam. Oggi molti paesi islamici hanno un mufti con competenza su tutto il territorio nazionale. All’epoca dell’Impero Ottomano ogni vilayet o sangiaccato (si veda l’articolo Palestina 1) aveva un mufti, mentre a Istanbul risiedeva lo shaykh al-Islam («sceicco dell’Islam») che costituiva la massima autorità in materia di diritto islamico.
Nomina del mufti — Nel 1921 morì il mufti di Gerusalemme e si pose il problema di nominarne un altro. Con gli ottomani la prassi era che le famiglie più in vista della zona presentassero una rosa di tre candidati, fra cui il sultano sceglieva quello ritenuto più degno. Nel 1921 però gli ottomani in Palestina non c’erano più, e la nomina spettava ai britannici. Intervenne a questo punto un funzionario di nome E.T. Richmond, il quale era un ardente antisionista e riteneva che il progetto di un’entità ebraica in Palestina fosse una catastrofe. Richmond voleva pertanto giocare un brutto tiro ai sionisti nominando gran mufti (titolo inventato dai britannici per designare il rappresentante politico degli arabi musulmani) qualcuno che desse garanzie di non scendere mai a patti con gli ebrei. L’uomo giusto fu individuato in Amin al-Husseini (1895-1974), all’epoca 26enne, il quale apparteneva sì a una delle famiglie arabe più in vista di Gerusalemme ma era una testa calda, e l’anno precedente era stato arrestato per avere istigato una rivolta antiebraica e antibritannica, e condannato a dieci anni di reclusione, ma poi graziato. Amin al-Husseini, che non rientrava nella rosa di tre candidati proposti dai notabili locali, fu allora nominato gran mufti, ma questo che voleva essere uno schiaffo ai sionisti a lungo termine si rivelò un grave danno per i palestinesi, poiché la politica intransigente di Husseini contribuì ad acuire lo scontro fra le due comunità, scontro da cui gli arabi di Palestina sarebbero usciti tragicamente sconfitti.
Ambiguità — L’episodio si inquadra nella più generale situazione di ambiguità della politica britannica in Palestina. Infatti i britannici in tutto questo periodo manifestarono una forte contraddizione nel loro atteggiamento verso arabi ed ebrei. Il governo di Londra era filosionista e intendeva applicare la Dichiarazione Balfour, anche se l’obiettivo non era uno Stato ebraico indipendente ma un’entità autonoma nell’ambito dell’Impero britannico. In particolare, secondo Churchill vi erano tre tipi di ebrei attivi in politica: coloro che partecipavano alla vita politica del paese in cui vivevano; coloro che abbracciavano l’ideologia bolscevica; e coloro che perseguivano il sionismo. Poiché in ben pochi paesi era consentito agli ebrei di partecipare pienamente alla vita politica locale, secondo Churchill rimaneva loro solamente la scelta fra bolscevismo e sionismo, e fra i due Churchill preferiva decisamente il secondo. Più in generale il governo britannico riteneva che questo nazionalismo ebraico andasse incoraggiato perché avrebbe apportato benefici alla Palestina, dato il diffuso modo di pensare razzista secondo cui gli ebrei, in quanto europei, erano civilizzati, mentre gli arabi erano asiatici e perciò primitivi. I funzionari britannici che andavano ad amministrare la Palestina, invece, erano spesso filoarabi; studiosi di lingua e cultura locali, erano affascinati dal mondo arabo, seppure idealizzato e ritenuto prossimo alla scomparsa a causa dell’immigrazione ebraica (in realtà i cambiamenti nella società araba erano piuttosto dovuti agli interventi britannici volti a modernizzare il paese). Questa duplicità si traduceva in decisioni contraddittorie, che alla fine scontentavano tutti.
Delegazione — L’altro episodio significativo del 1921 riguarda la missione di una delegazione di arabi di Palestina a Londra per incontrare Churchill. Ne venne fuori un dialogo fra sordi, perfino grottesco. Durante i colloqui, gli arabi ponevano una domanda, Churchill rispondeva, poi gli arabi ponevano di nuovo la stessa domanda, come se non avessero udito la risposta. Ma che dicevano questi arabi? Principalmente due cose: che l’immigrazione ebraica in Palestina non era sostenibile, perché le già scarse risorse del territorio bastavano a malapena a nutrire gli attuali residenti, e non certo i potenziali milioni di ebrei che si sarebbero potuti stabilire lì; e che gli ebrei si impadronivano di terre arabe e costringevano gli arabi ad andarsene. Churchill rispondeva che con un uso più efficiente delle risorse, in particolare modernizzando l’agricoltura, era possibile dare lavoro e sostentamento a molte più persone rispetto agli attuali residenti (cosa che si rivelerà corretta negli anni e decenni successivi); e che non veniva violato nessun diritto, poiché gli ebrei non invadevano la Palestina, ma acquistavano i terreni da privati arabi con transazioni regolari, su cui il governo britannico non aveva nulla da eccepire. In effetti, i proprietari terrieri arabi facevano a gara per offrire terreni agli ebrei, ricavandone un buon profitto.
Incomunicabilità — Quello che Churchill non capiva era che gli arabi intenti a vendere le terre agli ebrei erano quasi sempre grandi proprietari residenti nelle città, anche al di fuori della Palestina vera e propria (per esempio a Damasco o a Beirut), mentre gli arabi che dovevano andarsene dalle terre da loro coltivate da generazioni erano altri arabi, i quali perdevano casa e lavoro per via dell’acquisto di terre da parte degli ebrei. Tale distinzione non era certo ignota alla delegazione palestinese, guidata com’era da un altro esponente della famiglia Husseini (imparentato quindi col gran mufti), famiglia che a sua volta aveva venduto diversi terreni ai sionisti. La delegazione araba sbagliava nell’esporre il problema come se si fosse trattato di una questione economica o giuridica. Il rifiuto dell’immigrazione ebraica era invece di tipo emotivo, l’afflusso di sionisti veniva percepito come una sorta di invasione da parte di ulteriori europei colonizzatori. Inoltre gli arabi dimostrarono in questi incontri con Churchill di non essere in grado di negoziare. Per Churchill, come per tutta la diplomazia europea dell’epoca, era chiaro che un negoziato dovesse prevedere delle rinunce da entrambe le parti allo scopo di raggiungere un accordo soddisfacente per tutti. Invece gli arabi, a detta di Churchill, non erano capaci neanche di rinunciare all’1 per cento per avere il 99 per cento. In questo episodio è racchiuso il nocciolo del problema della Palestina, fino a oggi: una totale incomunicabilità, un rifiuto di prendere in considerazione le ragioni della parte avversa. Gli ebrei (e i britannici) non sapevano o non volevano coinvolgere gli arabi in questa impresa; gli arabi si trinceravano dietro un rifiuto totale del fenomeno sionista, senza nemmeno cercare di capirlo.
Il muro di ferro
Mentre i sionisti in Palestina dovevano vedersela con l’ostilità degli arabi, in Europa l’antisemitismo perdurava, e anzi i pregiudizi a danno degli ebrei sembrarono trovare conferma nel 1920 con la pubblicazione a Parigi e a Londra dei Protocolli dei savi anziani di Sion, in cui si dava un resoconto di riunioni tenutesi alla fine del XIX secolo nelle quali ebrei e massoni avrebbero complottato per rovesciare il capitalismo e il cristianesimo e assicurarsi poi il dominio del mondo intero. I Protocolli erano stati pubblicati all’inizio del XX secolo in Russia e dopo la diffusione in Europa ebbero grande risonanza e furono considerati la prova delle macchinazioni ebraiche. Nel 1921 però Philip Graves, corrispondente del quotidiano londinese The Times da Istanbul, svelò che i Protocolli erano stati architettati dalla polizia segreta zarista. I testi erano stati banalmente copiati da alcuni libri editi in lingua francese negli anni Sessanta del XIX secolo, in particolare da una satira contro Napoleone III pubblicata a Ginevra e a Bruxelles. Nonostante questa smentita, la fortuna dei Protocolli proseguì e ancora oggi in molti paesi islamici questi testi sono considerati veritieri e fanno parte della propaganda antiebraica e anti-israeliana.
Weizmann e Ben-Gurion — Tornando alla Palestina dei primi anni Venti, l’immigrazione ebraica proseguiva e all’interno del movimento sionista emersero alcune figure che avrebbero svolto un ruolo di primo piano nella nascita dello Stato di Israele. Chaim Weizmann (1874-1952) era un ebreo russo trapiantato prima in Germania e poi in Gran Bretagna, dove divenne capo della Federazione sionista britannica, ed era pertanto il destinatario della Dichiarazione Balfour, di cui aveva concordato il testo con Sykes e con lo stesso Balfour. Weizmann riteneva che il progetto sionista andasse realizzato gradatamente, mediante la diplomazia, anche se ciò avesse comportato una limitazione degli obiettivi, in modo da accettare quanto fosse stato ottenibile in pratica, un passo dopo l’altro. Weizmann diventerà poi il primo presidente dello Stato di Israele. Più deciso era invece David Ben-Gurion (1886-1973), sicuramente la figura più importante nella realizzazione del progetto sionista; in seguito sarà il leader del partito laburista israeliano e rivestirà la carica di primo ministro di Israele nei primi quindici anni di esistenza dello Stato ebraico, dominandone la politica. Ancora studente all’epoca della prima guerra mondiale, Ben-Gurion voleva creare un reparto militare ebraico per combattere a fianco degli ottomani contro i britannici; in seguito però divenne un fautore dell’alleanza con la Gran Bretagna. Tanto a Weizmann quanto a Ben-Gurion era chiaro infatti, come lo era stato già per Herzl, che il progetto sionista si sarebbe potuto realizzare soltanto tramite l’alleanza con una grande potenza. Prima i dominatori del Medio Oriente erano gli ottomani, poi erano arrivati i britannici, ed era a questi ultimi che bisognava appoggiarsi. La Dichiarazione Balfour e poi il testo del Mandato sembravano dare ragione a questa strategia.
Jabotinsky — Un percorso inverso rispetto a Ben-Gurion fu seguito da un altro personaggio, forse meno noto ma molto influente, Vladimir Zeev Jabotinsky (1880-1940). Ebreo russo di Odessa, Jabotinsky si appassionò alla causa sionista e creò reparti ebraici antiottomani nella prima guerra mondiale. Ben presto però il suo fervore filobritannico si affievolì; nello stesso episodio di rivolta araba organizzato da Amin al-Husseini, anche Jabotinsky fu processato e condannato per avere fatto affluire armi alla comunità ebraica. Jabotinsky pertanto riteneva che i britannici non fossero in grado di difendere gli ebrei dagli attacchi arabi e non volessero nemmeno consentire agli ebrei di difendersi da soli. Jabotinsky elaborò una teoria che espose nel 1923 in due famosi articoli intitolati Il muro di ferro. Jabotinsky era forse il primo sionista ad affrontare apertamente la «questione nascosta», ossia il problema degli arabi. Secondo Jabotinsky, gli ebrei avanzavano pretese sul territorio della Palestina, ma anche gli arabi rivendicavano lo stesso territorio e non avrebbero mai accettato di riconoscere la validità delle rivendicazioni sioniste. Questa constatazione induceva Jabotinsky a ritenere che il negoziato con gli arabi fosse perfettamente inutile. Allora gli ebrei, che all’epoca costituivano ancora una minoranza pari a circa il 10 per cento della popolazione della Palestina, avrebbero dovuto costruire il loro Stato mediante l’uso della forza, imponendo agli arabi questa realtà. Avrebbero poi dovuto difendere il loro Stato con un «muro di ferro», ossia con una tenace difesa armata, per dimostrare agli arabi l’invincibilità di questo Stato. A forza di sbattere la testa contro il muro di ferro, gli arabi prima o poi avrebbero capito che lo Stato ebraico non sarebbe stato un qualcosa di transitorio e di eliminabile, ma una realtà destinata a durare. Soltanto allora gli ebrei avrebbero potuto negoziare con gli arabi, da una posizione di forza. Queste idee di Jabotinsky sono importanti perché prefigurano quello che sarebbe successo in seguito. L’aspetto ironico è che Jabotinsky è ancora oggi una sorta di eroe dei partiti di destra israeliani, ma a guidare la politica israeliana per i primi trent’anni della storia del paese furono i partiti di sinistra, in particolare i laburisti, che non si rifacevano alle idee di Jabotinsky ma ugualmente le realizzarono in pratica. La differenza è che i partiti di destra travisavano Jabotinsky, ritenendo che la situazione del muro di ferro fosse permanente ed escludendo ogni negoziato con gli arabi, mentre Jabotinsky, come detto, la considerava una condizione per affrontare poi i negoziati con gli arabi da una posizione di forza.
Ø Vai a Palestina 4 Ø Vai a Palestina 1 Ø Vai a Palestina 2 Ø Torna ad Articoli Ø Torna alla Pagina iniziale |