Casella di testo: Roberto Sorgo                                                                              Pagina iniziale > Articoli > Terrorismo islamico 2

TERRORISMO ISLAMICO (2)

 

 

2) Il contesto storico

 

L’inimicizia fra mondo arabo-islamico e Occidente può essere fatta risalire all’epoca delle crociate. Tuttavia le motivazioni dell’attuale ostilità, sfociata negli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 in America, hanno un’origine molto più recente e riguardano la storia del XX secolo. Va detto innanzi tutto che secondo l’Islam i musulmani dovrebbero costituire un’unica nazione; e così fu all’inizio della storia islamica, dall’epoca di Maometto nel VII secolo ai califfati omayyade (661-750) e abbaside (750-1258), fino all’invasione dei mongoli nel XIII secolo. Dopo varie vicende si consolidarono a partire dal XVI secolo tre grandi Stati musulmani: l’Impero Moghul in India, l’Impero Persiano nell’attuale Iran e l’Impero Ottomano. Quest’ultimo riuniva sotto il dominio turco gran parte delle popolazioni arabo-islamiche del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, estendendo i possedimenti fino alla penisola arabica, compresa la regione chiamata Hijaz, sul mar Rosso, dove sorgono la città portuale di Gedda e i principali luoghi santi dell’Islam, la Mecca e Medina.

Fra il XIX secolo e l’inizio del XX l’Impero Ottomano cominciò a perdere dei pezzi, a vantaggio delle potenze europee: la Francia si prese l’Algeria e poi altre zone dell’Africa settentrionale, mentre l’Egitto andò ai britannici e infine la Libia agli italiani. Al termine della prima guerra mondiale, con lo smembramento definitivo dell’Impero Ottomano, gli europei si spartirono il Medio Oriente creando Stati separati, che ricalcavano grossomodo i confini delle province ottomane e divennero colonie o protettorati. Un primo motivo di risentimento nei confronti degli occidentali è pertanto dovuto a questa colonizzazione e alla conseguente separazione delle popolazioni arabo-musulmane in vari Stati creati artificialmente per volontà non delle popolazioni stesse bensì delle potenze coloniali.

 

Promesse — I britannici in particolare fecero varie promesse che poi non mantennero anche perché incompatibili fra loro: alla famiglia hashimita dello Hijaz (famiglia discendente da Hàshim, bisnonno del profeta, e incaricata di custodire i luoghi santi della Mecca e di Medina) promisero uno o più regni sul mondo arabo mediorientale; agli ebrei promisero una patria in Palestina; e nel frattempo stipularono con i francesi un patto per la spartizione del Medio Oriente, poi in parte disatteso (di questi avvenimenti si parla anche nella Storia della Palestina, articolo Palestina 2). Quando Faisal, figlio dello hashimita Hussein ibn ‘Ali, dopo la prima guerra mondiale cercò di installarsi a Damasco, i britannici consegnarono il territorio siriano e libanese ai francesi e trasferirono Faisal a Baghdad, per insediarlo sul trono dell’Iraq, dove lui non aveva mai messo piede. L’Iraq era stato da poco creato dai britannici stessi mettendo assieme le ex province ottomane di Mosul, Baghdad e Bassora. Frattanto la famiglia Sa‘ud si impadroniva dell’Arabia, compreso lo Hijaz, e gli hashimiti dovettero accontentarsi di regnare sulla Giordania, con ‘Abdallah, altro figlio di Hussein.

 

Israele — La situazione si complica dopo la seconda guerra mondiale con la creazione dello Stato di Israele. L’immigrazione ebraica in Palestina aveva avuto inizio nell’ultimo ventennio del XIX secolo e si era fatta sempre più cospicua, specialmente dopo l’avvento del nazismo in Germania. In Palestina, l’insediamento di comunità ebraiche era visto dalla locale popolazione araba come un ulteriore tentativo di colonizzazione, anche se gli ebrei ovviamente non avevano alle loro spalle uno Stato a favorire questa immigrazione, anzi fuggivano dagli Stati di origine per sottrarsi alle persecuzioni.

La Palestina, con la città santa di Gerusalemme, attirava gli ebrei in quanto luogo di origine geografico e religioso, non certo per la ricchezza, essendo un territorio privo di risorse naturali; avrebbe detto Golda Meir, primo ministro israeliano nei primi anni Settanta, riferendosi alla narrazione biblica: «Mosè ci ha trascinati per quarant’anni nel deserto per condurci nell’unico posto del Medio Oriente senza petrolio». Però la Palestina non era certo disabitata. I dissidi fra la locale popolazione araba e gli immigrati ebrei nascevano da una totale incomprensione reciproca: gli arabi non capirono mai le ragioni degli ebrei, e questi ultimi considerarono sempre gli arabi un ostacolo alla creazione dello Stato ebraico (se ne fa cenno nella Storia della Palestina, articoli Palestina 1 e Palestina 3).

 

Stato ebraico — Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la scoperta dei campi di sterminio e delle atrocità del nazismo nei confronti degli ebrei, tutto il mondo, sia a livello di opinione pubblica, sia a livello di governi, a cominciare da Stati Uniti e Unione Sovietica, era concorde sulla necessità di creare uno Stato ebraico in Palestina, territorio fino ad allora assoggettato al Mandato britannico, da cui gli inglesi avevano deciso di ritirarsi. Nel 1947 però i palestinesi rifiutano l’ipotesi di due Stati, uno ebraico e uno arabo, prevista dall’Onu, perché si ritengono defraudati, visto che costituiscono circa i due terzi della popolazione ma si vedono assegnare meno di metà del territorio; probabilmente però si illudono perfino di conservare l’intera Palestina (si veda la Storia della Palestina, articolo Palestina 4). Infatti nel 1948, non appena gli occupanti britannici lasciano il paese e viene proclamato lo Stato ebraico, i paesi arabi della regione intervengono in aiuto dei palestinesi e aggrediscono il neonato Israele, che però vince questa guerra e anche tutte le successive. Una conseguenza, fin dal 1948, è quella che oggi chiameremmo pulizia etnica, ossia l’espulsione dal territorio israeliano di gran parte della popolazione araba, che finisce in campi profughi gestiti dall’Onu e in insediamenti disagiati nei paesi arabi confinanti, creando tensioni e risentimenti.

 

Stati Uniti — Israele diventa così il principale nemico dei paesi arabi, e in seguito l’avversione si trasmette anche all’America, poiché gli Stati Uniti appoggiano gli israeliani; tale appoggio diventa evidente dopo la guerra dei Sei Giorni (1967), quando Israele occupa la Cisgiordania, la striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai. Questo episodio provoca nel mondo arabo un sentimento di frustrazione e sconfitta e alimenta l’odio verso Israele, mentre scatena l’entusiasmo degli ebrei di tutto il mondo, e in particolare di quelli americani. Questi ultimi, che fino a quel momento erano guardati con una certa diffidenza, a partire dagli anni Settanta creano la cosiddetta lobby ebraica, una serie di associazioni e gruppi di pressione con lo scopo di influire sulla politica americana nel Medio Oriente, scopo che generalmente viene raggiunto.

 

Guerra del Kippur — Quando nel 1973 scoppia un’altra guerra fra Israele e i paesi arabi, il conflitto chiamato dello Yom Kippur («giorno dell’espiazione», una festa importante del calendario ebraico) coglie di sorpresa Israele, che per la prima volta rischia di perdere. L’indecisione del siriano Assad e dell’egiziano Sadat consente a Israele di ribaltare le sorti della guerra, grazie anche all’aiuto americano in fatto di armamenti e informazioni, come le foto via satellite degli schieramenti avversari. Per ritorsione, i paesi arabi produttori di petrolio, compresa l’Arabia Saudita, proclamano un embargo petrolifero nei confronti degli Usa, mentre l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) aumenta il prezzo del greggio, che in poche settimane quadruplica. Questo choc petrolifero in realtà non ha gravi ripercussioni negli Usa, all’epoca principale produttore di petrolio al mondo, ma provoca una crisi economica in Europa e fa arricchire i paesi produttori. Ad approfittare dei proventi petroliferi negli anni successivi è fra l’altro Saddam Hussein, che in Iraq (dove il partito Ba‘ath è al potere dal 1968) accelera il processo di industrializzazione e modernizzazione del paese, creando infrastrutture, scuole e università, ospedali e servizi sociali; in tal modo l’Iraq diventa il paese più avanzato del mondo arabo, anche se la dittatura di Saddam Hussein è brutale e reprime con torture e massacri ogni forma di dissenso.

 

Iran — Tornando indietro nel tempo, un momento importante, anche se forse poco noto, è il colpo di Stato organizzato nel 1953 in Iran dalla Cia (il servizio di spionaggio e controspionaggio degli Usa) per abbattere il governo di Muhammad Mosaddeq, il quale aveva nazionalizzato l’industria petrolifera, allora in mano britannica. In seguito al colpo di Stato, lo scià Muhammad Reza Pahlavi instaura un regime sempre più duro, che reprime spietatamente ogni dissenso tramite la polizia segreta chiamata Savak. Questa dittatura dello scià per un quarto di secolo garantisce la stabilità dell’Iran e la sua amicizia con gli Usa, ma alla fine la popolazione non ne può più e a cavallo fra 1978 e 1979 scoppia la rivoluzione, in seguito alla quale nasce la repubblica islamica guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini (1900-1989). La rivoluzione scatena l’entusiasmo tra i musulmani di tutto il mondo, sia fra gli sciiti, correligionari degli iraniani, sia fra i sunniti, poiché dimostra che è possibile non soltanto compiere una rivoluzione in nome dell’Islam, ma anche creare una nuova forma di Stato islamico, ispirato al Corano, diversamente dai regimi laici e occidentalizzati del mondo mediorientale.

Quando nel 1979 lo scià, fuggito dall’Iran, trova rifugio negli Stati Uniti, i rivoluzionari iraniani temono una ripetizione degli eventi del 1953, allorché lo scià, fuggito temporaneamente dall’Iran, era stato rimesso sul trono dagli americani. Così occupano l’ambasciata Usa a Teheran (dove era stato organizzato il colpo di Stato contro Mosaddeq) e prendono in ostaggio una quarantina di funzionari, tenendoli prigionieri per oltre un anno. L’Iran diviene così uno dei principali nemici degli Usa.

 

Sciiti — Intanto Khomeini non fa mistero di volere esportare la sua rivoluzione islamica e invita i musulmani di tutto il mondo a ribellarsi. In particolare incita alla rivolta contro Saddam Hussein gli sciiti dell’Iraq, che sono la maggioranza nel paese ma sono discriminati e governati dai sunniti. Allora Saddam, con un clamoroso errore di valutazione, nel 1980 aggredisce l’Iran, illudendosi di vincere facilmente contro un paese isolato dal resto del mondo e non più finanziato né armato dagli Stati Uniti. La guerra durerà invece otto anni. Inizialmente gli Usa si mantengono sostanzialmente neutrali e convincono gli alleati europei a proclamare un embargo sulla vendita di armi a entrambi i contendenti ma, quando l’Iraq dopo due anni di guerra sembra andare incontro a una sconfitta, gli americani temono un Iran egemone in Medio Oriente e allora forniscono agli iracheni prestiti e armamenti.

 

Afghanistan — Nel frattempo vi era stato un episodio che avrebbe avuto gravi conseguenze: l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel dicembre del 1979. L’Afghanistan, territorio da sempre ingovernabile in quanto diviso fra entità etniche e tribali sempre in conflitto fra loro, era ambìto dai paesi vicini, e in particolare dal Pakistan, che alla fine degli anni Settanta, con la dittatura militare di Zia ul-Haq, voleva ingrandire la propria zona di influenza in funzione anti-indiana creando una vasta alleanza islamica. Così c’era stato un avvicinamento fra il Pakistan, l’Iran dello scià (due alleati degli Usa) e l’Afghanistan, con la minaccia di un blocco islamico per contrastare tanto l’Urss quanto l’India. Pertanto nel 1978 Mosca aveva appoggiato un imprevisto colpo di Stato comunista a Kabul, per mantenere l’Afghanistan sotto la propria influenza.

Dopo la rivoluzione di Khomeini, l’Unione Sovietica si vedeva di nuovo minacciata dall’Iran, per via della rivoluzione islamica da esportare altrove: le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale potevano cercare di unirsi ai paesi islamici confinanti, con un effetto destabilizzante per l’Urss. Pertanto Mosca riteneva indispensabile mantenere nella propria orbita l’Afghanistan, dove il governo comunista non era riuscito a stabilire un dominio durevole (si vedano gli articoli Afghanistan 1 e Afghanistan 2).

 

Jihad islamico — L’invasione sovietica provoca però un movimento di resistenza nazionale afgano, finanziato dai paesi arabi e dagli Usa e appoggiato dal Pakistan. Le varie etnie afghane, sempre in conflitto tra loro, in presenza di un nemico esterno si uniscono in nome dell’Islam, unica cosa che abbiano in comune. Così la lotta degli afghani contro gli invasori sovietici si trasforma in un jihad, una lotta fra musulmani e non musulmani. Su iniziativa del Pakistan, a questo movimento si aggiungono numerosi giovani musulmani di tutto il mondo, ma specialmente arabi, che accorrono soprattutto da Arabia Saudita, Egitto e Algeria per partecipare alla «guerra santa» contro gli infedeli.

Tra i volontari giunti dall’Arabia Saudita vi è anche Osama bin Laden, il quale si mette in luce soprattutto perché grazie alla ricchezza della sua famiglia di costruttori edili e alle sue conoscenze nel mondo arabo ricco di petrolio finanzia il jihad antisovietico. A Peshawar, in Pakistan, bin Laden e il palestinese ‘Abdullah ‘Azzam aprono un’agenzia (Màktab al-Khidmàt, Ufficio Servizi) che recluta e assiste i volontari per l’Afghanistan.

 

Al-Qa‘ida — Quando alla fine le truppe di Mosca si ritirano dall’Afghanistan, fra 1988 e 1989, bin Laden ha ormai organizzato una rete di finanziamenti (chiamata «Catena d’oro»), tramite enti di beneficenza e organizzazioni non governative, in cui confluiscono le donazioni dei finanzieri arabi per l’acquisto di armi e forniture per i combattenti. Alla morte di ‘Azzam in un attentato a Peshawar nel 1989, bin Laden ha già trasformato l’agenzia in una rete, con le informazioni sui gruppi di combattenti, chiamata al-Qa‘ida, letteralmente «la base, il fondamento», nessuno sa di preciso perché, ma forse per tradurre il termine informatico inglese database, «banca dati»; o forse perché lo stesso ‘Azzam in un articolo aveva parlato di un «fondamento solido» del jihad islamico. I due soci concordavano sul fatto che gli «arabi afghani», reduci dalla lotta contro i sovietici, non dovessero disperdersi, ma andassero utilizzati nella lotta dell’Islam contro gli infedeli. E in effetti nel corso degli anni Novanta si sarebbero impegnati in Bosnia, in Cecenia, in Kashmir e ovunque vi fossero conflitti tra musulmani e non musulmani.

 

Guerra del Golfo — Frattanto, un altro momento importante è la guerra del Golfo nel 1991. Terminata nel 1988 la guerra fra Iran e Iraq, con un milione di morti ma senza vincitori e senza modifiche territoriali, Saddam Hussein si trova un paese devastato e finanziariamente a terra. Mentre durante il conflitto il Kuwait, l’Arabia Saudita e altri paesi arabi hanno finanziato l’Iraq, temendo una vittoria dell’Iran, alla fine della guerra il Kuwait in particolare reclama la restituzione dei prestiti concessi a Saddam. Inoltre quest’ultimo accusa il Kuwait e altri paesi arabi di produrre più petrolio di quanto consentito dalle quote Opec, contribuendo così a ridurre ulteriormente il prezzo del greggio, in questo periodo già molto basso. Saddam pensa così di risolvere i suoi problemi invadendo il Kuwait, per incamerarne non tanto i pozzi di petrolio quanto il denaro. Tuttavia dopo l’invasione, nel 1990, potrà impadronirsi di circa 2 miliardi di dollari, custoditi nella banca centrale kuwaitiana, ma la gran parte della ricchezza del paese, valutata in almeno 200 miliardi di dollari, è distribuita nei circuiti finanziari internazionali ed è pertanto inaccessibile.

 

Coalizione — Dopo l’invasione del Kuwait, la comunità internazionale reagisce, e sotto l’egida dell’Onu gli Stati Uniti riuniscono una coalizione che comprende anche paesi arabo-islamici (in primo luogo l’Arabia Saudita, ma anche Egitto e Siria) per combattere l’Iraq, altro paese arabo-islamico, diventato ora un nemico pericoloso per la stabilità della regione. Secondo l’Islam, i musulmani non dovrebbero combattersi fra loro, bensì unirsi per combattere gli infedeli. Va osservato tuttavia che la situazione non è nuova, poiché anche ai tempi delle crociate vi erano alleanze fra regni cristiani e musulmani per combattere altre alleanze fra cristiani e musulmani.

Prima che si crei questa coalizione, bin Laden propone ai regnanti sauditi di utilizzare per la riconquista del Kuwait i suoi «arabi afgani». Quando i sauditi rifiutano questa offerta e preferiscono affidarsi a un esercito di «infedeli», bin Laden si infuria e diventa un nemico implacabile della famiglia reale saudita. Per di più, al termine della guerra del Golfo gli americani rimangono in Arabia Saudita, con alcune basi militari, per scoraggiare ulteriori aggressioni da parte dell’Iraq. Questo insediamento è visto da alcuni, fra cui lo stesso bin Laden, come una sorta di sacrilegio, poiché vi sono infedeli sul territorio che ospita i luoghi sacri dell’Islam.

Questo contesto storico dovrebbe far capire alcune dei motivi di risentimento antioccidentali che alimentano il terrorismo islamico. Ora bisogna vedere il contesto culturale, ossia ciò che viene chiamato fondamentalismo islamico. Se ne parla nell’articolo Terrorismo islamico 3.

 

 

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