VERA CROCE
Così come della nascita, anche della morte di Gesù non si sa molto, a parte il fatto che fu crocifisso «sotto Ponzio Pilato», governatore della Giudea dal 26 al 36 d.C. Dopo la diffusione del Cristianesimo nell’Impero romano a partire dal IV secolo, grazie all’imperatore Costantino, si incominciò a ricercare qualche segno tangibile delle vicende narrate nei Vangeli. Un momento importante in questo senso fu il viaggio in Palestina intrapreso dalla madre di Costantino, Elena, dopo la sua conversione al Cristianesimo (327 d.C.). Il pellegrinaggio di Elena fu, diremmo oggi, un’operazione di pubbliche relazioni a favore del figlio: facendo distribuire denaro e vestiario ai poveri e scarcerare detenuti, Elena testimoniò la benevolenza dell’imperatore verso i sudditi.
Aelia Capitolina — Gerusalemme, dopo la distruzione a opera dei romani nel 70 d.C., era stata ricostruita nel 131-132 dagli stessi romani, che ne avevano fatto una loro colonia con il nome di Aelia Capitolina. Dopo la rivolta ebraica guidata da Simeon Bar Kokhba nel 132-135, gli ebrei furono espulsi dalla città, che venne popolata dai soldati della Decima Legione. I cristiani ebrei pure vennero cacciati, mentre erano tollerati i cristiani non ebrei (perlopiù soldati romani), almeno nei periodi in cui non vi erano nell’impero persecuzioni contro i cristiani. Nella ricostruzione della città, sotto l’imperatore Adriano, sulla spianata del tempio venne edificato un santuario dedicato a Giove, e sull’angolo nord-occidentale della stessa spianata si costruì un triplice arco di trionfo, di cui rimane ancora un tratto, oggi situato sulla Via Dolorosa; è chiamato «arco dell’Ecce homo», con riferimento a Pilato che presenta Gesù alla folla («Ecco l’uomo», Giovanni 19, 5), in quanto viene erroneamente collegato alla passione di Cristo.
Triplice tempio — Aelia Capitolina fu costruita inizialmente senza fortificazioni e con pianta squadrata secondo l’uso romano. Nella parte occidentale della città fu edificato in seguito un triplice tempio dedicato a Giove, Giunone e Venere (o secondo alcuni Minerva). Stando alla tradizione cristiana, questo tempio sorgeva sul luogo della crocifissione e voleva cancellare ogni traccia dei luoghi di culto cristiani sostituendoli con templi del culto pubblico «pagano» di Roma; in tal caso però l’operazione avrebbe ottenuto l’effetto contrario, quello cioè di rendere evidente a tutti l’ubicazione del Santo Sepolcro, nascosto sotto il grande tempio. La realtà era però diversa. Aelia Capitolina era stata completamente ricostruita e non aveva più nulla della Gerusalemme ebraica. Di Gesù si sapeva poco, e la comunità cristiana, come detto, era ridottissima. Mentre dall’Europa e da varie zone mediorientali, dove nascevano comunità cristiane, incominciavano ad affluire i primi pellegrini in Terra Santa, a Aelia Capitolina nessuno sapeva indicare i luoghi in cui aveva sofferto Gesù. Bisognava pertanto affidarsi alla fantasia, perché la Gerusalemme dell’epoca di Cristo non esisteva più.
Luoghi imprecisati — Va considerato inoltre che i Vangeli, sia quelli canonici (Matteo, Marco, Luca, Giovanni) sia quelli apocrifi (Pietro, Tommaso, Vangelo secondo gli Ebrei, Protovangelo di Giacomo e numerosi altri), sono molto imprecisi riguardo ai luoghi della vita e della morte di Gesù. Questo per vari motivi: i Vangeli furono scritti diversi decenni, o addirittura secoli, dopo i fatti che raccontano; vennero redatti al di fuori della Palestina (in Egitto, in Italia, in Asia Minore); e il loro scopo non era fornire un resoconto storico bensì comunicare un messaggio religioso. Bisogna tenere presente infine che tra i primi cristiani vi era scarso interesse per i luoghi in cui era vissuto Gesù Cristo, di nuovo per diversi motivi: questi primi fedeli vivevano nell’attesa di un’imminente fine del mondo, annunciata da Gesù stesso; i cristiani furono per lungo tempo una minoranza minacciata da persecuzioni, per cui non era opportuno dare rilievo al culto con pellegrinaggi o cerimonie in luoghi pubblici; e inoltre, sia per ragioni di segretezza sia per reazione contro i culti ebraici e pagani, legati a realtà materiali e a località ben precise, i cristiani prediligevano una devozione maggiormente spirituale, ponendo in risalto l’introspezione anziché le manifestazioni esteriori della fede.
Costantino — La situazione muta radicalmente nel IV secolo, grazie all’imperatore Costantino, che con l’editto di Milano (313 d.C.) concede libertà di culto ai cristiani, i quali possono così uscire allo scoperto e vengono anzi incoraggiati a praticare la loro fede. Da questo momento si risollevano anche le sorti di Gerusalemme. Dopo il Concilio di Nicea (325), i soldati romani abbandonano Aelia Capitolina, trasferendosi gradatamente a Elat, sul mar Rosso, per proteggere le legioni contro le incursioni dal deserto. Finisce così un’occupazione militare durata quasi due secoli, e la città torna a chiamarsi Gerusalemme. Frattanto il Cristianesimo si diffonde sempre più. Lo studioso americano Rodney Stark valuta che il numero di cristiani, appena un migliaio nel 40 d.C., nel 350 fosse ormai salito a 34 milioni, più di metà della popolazione dell’Impero romano.
Ritrovamenti — L’impulso dato da Costantino alla diffusione del Cristianesimo suscita un nuovo interesse per i luoghi santi. Macario, vescovo di Gerusalemme dal 314 al 335, durante il Concilio di Nicea invita l’imperatore a visitare la città. Di lì a poco Eusebio (circa 265-340), vescovo di Cesarea, città da cui dipendeva Aelia Capitolina, riferisce a Costantino che Macario ha «ritrovato» il Santo Sepolcro scavando sotto il triplice tempio romano. Su insistenza di Elena, il tempio di Adriano viene abbattuto e al suo posto sorge una basilica monumentale. Poiché nei pressi vi è una rupe alta cinque metri, in questa viene identificato il Golgota o Calvario, luogo della crocifissione di Gesù. A poco a poco si «scoprono» numerosi luoghi in cui si sono svolti episodi narrati dal Nuovo Testamento e si ritrovano molte reliquie relative alla vita di Gesù o al martirio dei santi. Il ritrovamento segue sempre lo stesso schema: l’esistenza delle reliquie o dei luoghi santi viene rivelata a qualcuno in sogno o in una visione; il visionario deve vincere il proprio scetticismo e quello delle autorità, dopo di che hanno inizio gli scavi; a quel punto ha luogo la scoperta, e in seguito è quasi sempre un miracolo a garantire l’autenticità del ritrovamento. Tra i casi più spettacolari vi è quello del centurione Cornelio, il primo gentile (ossia non ebreo) a essere convertito dall’apostolo Pietro (Atti 10, 1-48): secondo un’agiografia, la Passione di San Cornelio, la tomba stessa del santo si sarebbe messa in movimento per raggiungere la basilica eretta in suo onore.
Elena e la Croce — Quanto alla Vera Croce, secondo la tradizione il suo ritrovamento avvenne il 14 settembre del 328 (o secondo altre fonti del 335); per darne l’annuncio al figlio Costantino, Elena fece accendere dei falò di collina in collina fino a Costantinopoli, e per questo ancora oggi in Medio Oriente si accendono falò sulle colline nella ricorrenza del 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Croce, celebrata in modo particolare dai cristiani maroniti del Libano. Le circostanze del ritrovamento sono avvolte nella leggenda e dal punto di vista storico sono molto dubbie. Per esempio, il già citato Eusebio di Cesarea non ne fa menzione, ma forse solo per timore che Gerusalemme acquisisse un’importanza maggiore della stessa Cesarea, mentre Giovanni Crisostomo (circa 345-407), in suoi scritti datati attorno al 398, dice che il legno della croce non è stato conservato, perché c’erano cose più urgenti da fare. Invece Rufino di Aquileia (circa 345-410), scrivendo verso il 402, narra che sotto le macerie, in un luogo sognato da Elena, si scoprono tre croci e l’iscrizione (titulus crucis). Per capire quale sia la croce di Cristo, si portano tutte e tre a una signora di alto rango, costretta a letto da una malattia mortale. Il vescovo Macario recita una preghiera e, quando il legno della Vera Croce viene accostato alla donna, questa miracolosamente guarisce. Ambrogio (circa 339-397), vescovo di Milano, afferma invece che Elena poté riconoscere la Croce perché recava ancora il titulus crucis, ossia l’iscrizione «Gesù Nazareno re dei Giudei». Secondo la leggenda, la Croce era stata costruita col legno dell’albero della vita, portato fuori dall’Eden da Set, figlio di Adamo.
Altre reliquie — Nel corso dello stesso viaggio in Palestina Elena «ritrova» anche i chiodi della croce e la corona di spine. Ha così inizio la diffusione di queste reliquie, che si moltiplicano e si diffondono in tutto il mondo cristiano. Il frammento principale della Croce viene conservato a Gerusalemme; nel VII secolo viene prima trasportato in Persia dopo l’invasione della Palestina da parte di Cosroe II, poi ricondotto a Gerusalemme dai bizantini. All’epoca delle crociate viene portato in battaglia dai re cristiani, sia per incoraggiare i soldati, sia perché serva da amuleto; va perduto definitivamente con la battaglia di Hattin in Galilea (1187), dove i crociati vengono sconfitti da Saladino. Tuttavia i frammenti della croce sono ormai da tempo diffusi dappertutto, se già poco dopo il ritrovamento, verso il 340, Cirillo di Gerusalemme (circa 315-387) afferma che tali frammenti «riempiono il mondo intero». Dodici secoli dopo, Thomas Cromwell (circa 1485-1540), ministro del re d’Inghilterra Enrico VIII, viene a sapere che a Bury Saint Edmunds esistono «pezzi della Santa Croce sufficienti a fabbricarne una intera», mentre il riformatore Giovanni Calvino, nel suo Trattato sulle reliquie (1563), afferma che nemmeno trecento uomini avrebbero potuto trasportare la quantità di legno contenuta nelle tante reliquie della Vera Croce. Insomma, come è stato fatto notare, se tutti i frammenti esistenti nel mondo cristiano fossero stati messi assieme, si sarebbe potuto costruire non una croce ma un bastimento. Se la cosa ci fa sorridere, non dobbiamo dimenticare che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, i frammenti del manufatto si sono moltiplicati al punto che oggi, se messi assieme, costruirebbero un muro da Berlino ad Amburgo.
Titulus crucis — Anche gli «accessori» della Croce ebbero fortuna e si diffusero nei paesi cristiani. Ancora oggi, nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, sono conservati il titulus crucis con parte dell’iscrizione in latino e greco, un chiodo della croce, due spine della corona di Gesù, un po’ di terra del Santo Sepolcro macchiata del sangue di Cristo, nonché la trave orizzontale della croce del ladrone pentito e perfino il dito indice di San Tommaso (con cui avrebbe toccato le piaghe di Gesù). Del titulus crucis esistevano in passato almeno altre due copie, conservate a Parigi e a Tolosa. La reliquia romana è stata di recente analizzata da Francesco Bella e Carlo Azzi, del dipartimento di fisica dell’Università di Roma Tre, che tramite la datazione col metodo del radiocarbonio hanno stabilito per il manufatto un’età di 1020 anni, più o meno 30 anni.
Corona di spine — Per quanto riguarda la corona di spine, si sa che era venerata a Costantinopoli dal VI secolo; dopo la conquista della città da parte dei crociati nel 1204 e il successivo saccheggio, le spine furono donate a chiese di tutta Europa. Questo celebre saccheggio, un evento piuttosto vergognoso per il mondo cristiano, in cui i crociati anziché attaccare gli «infedeli» se la presero con altri cristiani, ebbe l’esito di depredare Costantinopoli delle principali reliquie, che inondarono l’Europa. Però nel giro di appena tre anni vennero nuovamente fabbricate e «ritrovate», tornando al loro posto. Così, pochi decenni più tardi, l’imperatore bizantino Baldovino II Porfirogenito (1217-1273) riuscì a vendere a caro prezzo al re Luigi IX di Francia (1214-1270, in seguito proclamato santo) tutta una serie di altre reliquie, per custodire le quali il sovrano fece costruire a Parigi la Sainte-Chapelle: si trattava della corona di spine, o meglio di una fascia da lutto con alcune di tali spine, e inoltre della veste di porpora che i soldati avevano gettato per derisione sulle spalle di Gesù (l’episodio è narrato in Giovanni 19, 2), della spugna con cui gli avevano inumidito le labbra quando era sulla croce, di un frammento della lancia che gli aveva trafitto il costato, e di un brandello del sudario.
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